CONFINE

È strano cercare di dire qualcosa quando il venticinque percento della gente ha perso il settantacinque percento delle parole e mette degli asterischi al posto di ciò che conta. Ma la parola è l’ultima forma di potere, e io non la cederò. Mamma vive al confine. Da loro cadono le bombe e lei ha avuto un infarto dopo che le ho detto al telefono che ciò che avviene è criminale, che tacere è partecipare, e che ho comprato un biglietto per l’Asia centrale perché ora per me è pericoloso restare qui. In quel momento lei è caduta sul pavimento della sua cucina, si è risvegliata qualche ora dopo ed è riuscita a chiamare l’ambulanza. Non mi ha risposto per due giorni, e poi singhiozzava e diceva che l’avevo uccisa. Pregava ogni bomba che volasse fino a lei. Scriveva (parola per parola): «Tu non mi senti. Sono 15 anni che cerco di avvicinarmi a te e tu tutti questi 15 anni mi respingi. Non ho più un cuore, né un’anima. Solo una grande ferita. Soffro senza fine e ho paura per te. Temo che tu ostinato conduca te stesso verso l’abisso. Il buon senso ti ha lasciato per sempre. Tutti questi 15 anni non hai seguito il buon senso. E io non so come salvarti. Ma so per certo che non prenderò parte alla tua rovina. Pensa ancora una volta: chi ci sarà ad attenderti in un paese altro senza soldi, senza casa, senza lavoro? Il mio cuore non sopporta questo dolore. Sul mio cuore ci sono cicatrici. Almeno comprendi che è una strada senza ritorno? Da te stesso non scapperai. E la paura è cattiva consigliera. Dimenticami. Non chiamare, Non ho la forza di conversare». Ha detto e poi ha aggiunto che occorre cancellare la corrispondenza, È pericoloso. E che è meglio cancellare del tutto whatsapp. Ho pensato: le cicatrici sembrano più sicure delle parole, è più facile nasconderle, che le parole sembrano fare più paura della morte fisica umana.

Quando la ****** è iniziata, l’ho supplicata di venire da me, ma lei diceva: «Io non lascio casa mia». Lei diceva: «In qualsiasi situazione ci sono lati positivi e lati negativi. Cerca sempre i lati positivi. Saranno dieci anni che ti dico di imparare un mestiere normale, dove ci sono soldi. Utile alla gente. E, finalmente, è giunta l’ora». Io dico: «Sì, grazie a Dio, si può diventare idraulico, soldato o prostituta». Lei dice: «Ma perché la prendi così? L’idraulico è un normale lavoro da uomini. Oddio, che, forse è la prima volta? Quante volte ci sono già stati conflitti internazionali. Quante volte abbiamo già avuto paura. E l’Occidente non rigetterà mai i legami economici con la Russia. Adesso fanno la voce grossa, gli tocca. È la geopolitica». Può darsi, ma ora «prima della ******» non significa prima del quarantuno. Vuol dire «ieri». E sta bene che lei non capisca cosa vuol dire perdere il senso della vita, ma sa cosa vuol dire lasciare casa propria a causa della guerra, fa solo finta di essersene dimenticata.

Nel giro di un mese hanno abolito tutto il mio lavoro ed è tutto chiaro a tutti. Il romanzo che avevo quasi finito non serve più. Per la Russia i pensieri sul futuro sono diventati insopportabili.

– Alla tv danno «Brat», il nostro «Brat» – Mi scriveva. – A te non piace soltanto perché piace a me. Perché è forte. Mentre io penso che quel nostalgico «Brat» fascistoide ridistribuito oggi sia una merda anche perché fa il paio con i più poveri e gli xenofobi, con chi non hai mai sognato e creduto, e con chi non soffre all’idea di venire di nuovo costretto all’esilio, ma non fa il paio con quel ceto istruito che ora, evidentemente, è la principale vittima dentro alla Russia. L’eroe del nostro tempo non è il povero operaio, non è il sottoproletario, non è lo sbirro che mostrano su NTV e non è lo statale con la laurea professionalizzante: questi sono solo piccoli uomini. Ma è quello che ha passato la vita a ideare il futuro e ha fatto tutto per superare la propria emarginazione di origine, per non essere una poltiglia solidificata di sangue nella nera carne malata del paese, ma essere come quella ragazza o ragazzo degli Oscar, che ringrazia di diritto il proprio impegno e la propria voglia di vincere, afferra la statuetta e scende verso la prima fila di poltrone, bacia la ragazza o il boyfriend, evitando di delinquere, far pietà a se stesso e prendere gli ascensori dello stato.

E, una volta detto ciò, ho pensato ai soldati, saltati in aria poggiando le piante dei piedi sui fogli matricolari, dopo aver appena iniziato a camminare. E a qualcuno dei principali, che in un video ha augurato agli eroi di «rimettersi presto in piedi». E che dovremo vederli ancora. E che dovremo conviverci ancora, e distogliere gli sguardi nelle vie, e dire a noi stessi qualcosa come «non credevo, non sapevo, non sognavo, sono piccolo, io», continuando per la nostra strada lenta a passi minuscoli dove si scivola nella paura, coperti da una leggera neve di marzo, simili a grumi di poltiglia bianca, toccando la scivolosa, nera carne fredda del paese sotto i piedi.

Prima dell’infarto le dicevo: «Mamma, te ne sei pure scappata dalla repubblica dell’Asia centrale, dalla patria di tutti i nostri avi, russi etnici. Ti ricordi cos’è la ****** e com’è non avere un tetto. E ti ricordi che il nostro paese non ha mai, mai, difeso i russi». A questo lei mi rispondeva: «I tempi sono cambiati, questa è un’altra Russia». Io pensavo: «Mamma, hai un dottorato in economia, in passato eri in politica da liberale, un tempo mi insegnavi le scienze, la libertà e la giustizia. Quand’è che ti hanno cancellato la memoria?». Mentre pensavo, lei mi diceva qualcosa sulla geopolitica, di cui non capisco nulla, E che le dispiaceva per la gente, molto. Parlava e piangeva, stropicciava il suo grande seno là dove sta il cuore e mi era chiaro che era una contraddizione interna insuperabile; che la geopolitica è un metodo per generalizzare, che allontana dall’individuale e dall’umano, che permette al cuore di non spaccarsi.

E poi da loro hanno preso a bombardare. Mamma scriveva: «Dopo pranzo ha iniziato a tuonare dalla parte dell’Ucraina. Così vicino che mi sono convinta che le bombe siano da noi. Ci bombardano. Un bagliore, un fumo, molto vicino. Ho detto a Saša: andiamo a far legna, tagliamo i meli. E se ci inculeranno, allora non avremo paura».

Tre giorni dopo l’infarto mi ha scritto un messaggio tranquillo. Mi ha mandato degli sticker di dinosauri con le labbra truccate che dicono «he-he-he» e mandano baci, e mi ha raccontato dei meli. E tutto è diventato pacifico e vellutato, come la mattina di Pasqua quand’ero piccolo, o a Natale, o in qualsiasi altro giorno santo. Sono rimasto in Russia, ho lasciato perdere il biglietto e sono andato da mamma.

Qualche giorno prima della ****** scrivevo di questo luogo: nel villaggio il silenzio fa paura. Lo esorcizzano con il televisore in ogni casa, con il latrato dei cani nel cortile e con le urla da un lato all’altro della strada: «dove vai?», «di là», «ah ok», «ok, sì». Come la muffa in ogni veranda, ancora e ancora il silenzio emerge verde di colore e tutto si fa indifeso e nudo. Di recente un vicino ubriaco si è zittito in un cumulo di neve e allora il cane da pastore ha morso la testa al padrone e gli ha portato via lo scalpo, per il fatto che quello si era zittito. Questo cane grande quanto un vitello vaga sempre sul ciglio della strada che porta fuori dal villaggio accanto al negozio triste, affamato e aspetta che qualcuno si zittisca. E di questo tutti si ricordano sempre. Parla con chi vuoi, sia pure un gatto, un cane, sia un melo, sia un cumulo di neve, canta canzoni sovietiche. Parla, ripeti, esorcizza. In campagna non fanno altro che parlare: del cibo, dell’erba, della pensione, di putin e di nuovo del cibo. Cantano vecchie canzoni ancora e ancora, di anno in anno, spazzando la neve dalle strade perché venga ancora a ricoprire tutto, perché le talpe ancora si mangino tutti i bulbi dei tulipani, perché la veranda di nuovo diventi verde, e falciano l’erba nel campo perché dopo un mese torni ad arrivare alle orecchie; si arrabbiano: la fragola non è buona, è la varietà acida; e ripiantando la stessa ancora e ancora, per mescolarla a panna e zucchero, darla ai nipoti e dire che è il frutto migliore perché è il proprio, non i vostri OGM importati; preparano cibo in gran quantità, perché domani di nuovo non ci sia nulla da mangiare; parlano-ripetono. Nel villaggio sono in pochi a ricordare come ci sono finiti, e, se lo ricordano, comunque lo dimenticano e ormai non se ne vanno da nessuna parte. La terra trattiene, non rilascia, l’erba trattiene, non rilascia, la muffa trattiene, non rilascia, i cumuli di nevi trattengono, non rilasciano, la fragola trattiene, non rilascia, la canzone trattiene, non rilascia, la pensione trattiene, non rilascia, il cane da pastore fa la guardia sulla strada che porta fuori dal villaggio accanto al negozio, e capita che qualcuno si spinga fino all’estremo del villaggio, senta il silenzio, guardi il cane da pastore, si senta indifeso e nudo e inizi una canzone vecchia-vecchia, che là è tutto cattivo, importato e OGM, che la sua fragola è la migliore, mentre al televisore putin e le cartomanti esorcizzano il silenzio, ci salvano tutti, e poi, l’erba è l’erba. E la canzone torna alla terra, la canzone salva; il silenzio uccide.

E ora tutto questo suona molto stupido, perché con il rumore arriva la morte vera. Tutto, tranne le parti su putin e le cartomanti.

Ho scritto a un’amica: «Sopra casa di mia mamma sta volando di tutto: caccia, elicotteri, che non so proprio cosa abbiano intenzione di fare. Un caccia vola molto velocemente, in un paio di secondi attraversa il cielo, ma l’aria rimbomba per mezzo minuto. E poi su di noi ci sono sempre elicotteri. Evidentemente controllano la zona di confine. Non so. Volano come grasse zanzare e di solito in coppia, come i poliziotti in stazione. Ascoltarli non fa affatto paura. Da quando sono qui non hanno bombardato o io non ho sentito. Ma quando avevano bombardato, mia mamma ha detto che si vedevano le ali dei missili, da quanto era vicino. Vicino al nostro villaggio c’è una base. E anche se non ho visto esplosioni, ho visto delle scie oblique dal cielo verso la terra, come molte lettere z unite in una ghirlanda. Il missile cade da qualche parte, ma l’esplosione non si sente».

Questa settimana io e mamma abbiamo riso così tanto, come, mi pare, mai dopo l’infanzia. Perché non sai mai cosa verrà. Le talpe della specie a rischio hanno già iniziato a scavare. Noi lavoravamo in giardino e scherzavamo, dicendo che erano delle sabotatrici e scavavano dalla parte dell’Ucraina, e che bisognava prenderle per poi portarle all’Aia a spese dello stato. — Io raccolgo la documentazione, — scherzava mamma, — su come mi perseguiti. E poi la passerò a Norimberga. E un pezzo che non vai in Germania, no? Sognavi di farlo? Ecco, ti ci mandiamo. E discutevamo su chi di noi reprimeva di più l’altro. Non so, ma per qualche motivo tutto questo ci faceva ridere.

Cucinavamo molto: bešbarmak, plov, qurutob, coriandolo, cumino, molto pepe, tutto come prima. Tutto come quand’ero piccolo, quando allestivamo sul dastarkhān la nostra quotidianità postcoloniale, mangiavamo con le mani, ascoltavamo la tv e là c’era l’ennesima infinitamente lunga guerra coloniale. Ma ora non ascoltavamo il televisore, ascoltavamo l’aria.

Sono dovuto andare a Mosca, anche se proprio non volevo. Osservavo alla stazione locale gruppi di persone armate camminare, afferrare dei passanti, portarli da qualche parte. Viaggiavo con una compagnia di soldati non so di dove, dalla barba molto incolta, allegri. Guardavo un vecchio malato che trascinava sulla povera spalla una sporca borsa vuota con la scritta «Russia». Leggevo che nel patriarcato di Mosca avevano comunicato la morte di un sacerdote non lontano dalla città: colpito da una granata. Pensavo a mamma. E se stavo troppo male accendevo il VPN e guardavo su instagram Michael e Robin di Atlanta. Persone del tutto normali, felici e sconosciute, che vivono come una famiglia. Dalle fotografie Michael assomiglia a mio padre, che non conosco. Gli ho scritto allora: Mio padre vive ad Atlanta. Si chiama Michael. Ha i capelli neri e gli occhi azzurri. È fidanzato con un ragazzo dai capelli rossi che si chiama Robin e in instagram nel suo profilo è scritto: «I’m not the dad you have, but I’m the dad you always wanted». Ed è davvero simile a mio papà, se vivesse ad Atlanta e non bevesse, non avesse provato a uccidere la mamma, non fosse saltato dalla finestra. Sei del sud, anche io di origine. E questo in generale è tutto. Spero che tu non cammini per le strade buie da solo, che non picchi nessuno, che non ti arrabbi e che torni sempre a casa, che ascolti le canzoni di Aguzarova, di Leps e delle Vorovajki, e che ad Atlanta non faccia freddo e si viva d’amore e d’accordo. È tutto ciò che mi interessa.

Sono arrivato a Mosca, dalla stazione passo accanto alla fermata Kurskaja con la giacca sporca di terriccio del giardino in mezzo ai senzatetto, agli invalidi e ai mendicanti della stazione, e non distolgo lo sguardo. Passo alla mia università d’eccellenza progressista così come si passano a trovare i nuovi inquilini del tuo vecchio appartamento dieci minuti per prendere qualcosa e poi si rimane un’ora. Vado in mensa e nel cortile sul retro, anche se non voglio né mangiare, né fumare, non noto che nell’orario mancano alcune materie. Cammino e mando a memoria i bei volti che sono ancora qui e che fanno ancora quello in cui credevano prima. Ridono, mangiano, qualcosa scrivono e discutono, indossano simboli della pace, spille arcobaleno, organizzano progetti e continuano a ideare il futuro. Vado nei teatri dove lavoravo prima di questa ******, dopotutto tutte le persone più belle di Mosca si sono sempre nascoste nei teatri e nelle università d’eccellenza progressiste, e se prima erano vetrine, ora sono delle Ol’ga Buzova di cartone del discount.

Sento che voglio comprare un qualche fiore o meglio un garofano. Perché la Russia ora è un fiore senza radici. È ancora in fiore, ma già si incurva. È ancora simbolo di vittoria e di morte. E non porta bene raccogliere garofani da terra. Per questo voglio comprarlo e camminare a lungo, a lungo, sostenere con le dita la sua gracile testa e rimandare all’infinito la separazione.

Ho sempre amato i fiori secchi, come ad esempio il cotone della patria di mia mamma e di tutti i nostri avi, russi etnici deportati. Non gli tocca morire, non mi tocca curarlo, ed è facile da conservare in un album tra le pagine e in generale non spiace buttarlo o perderlo. Il cotone dorme nell’album di una tranquilla irreversibilità, segna un confine tra i tempi con il suo stelo nero, ma non è possibile infilare nell’album il garofano-Russia ancora vivo. E io camminerò con lui per le strade, sosterrò la sua testa assonnata a lungo, a lungo, a lungo, a lungo, quanto vorrà Dio, finché il tempo non farà di noi tutto ciò che deve, lo stringerò all’ampio petto lì dove in tutti noi si trova un cuore spaccato, perché noi siamo una cosa unica, e il paese natio non si divide in due, in un paese buono e in un paese cattivo, in un paese vivo e in un paese morto, in un paese medico e in un paese assassino, tutto questo siamo noi, non c’è un confine. E per noi comunque non c’è più dove nascondersi da tutto questo.

Traduzione di Martina Napolitano (per Russia Resistente, ЯR)

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